
La lettura a video, l’abbandono della carta stampata, la crisi dell’editoria classica e dei quotidiani: i problemi delle tipografie non descrivono una semplice crisi di settore, ma ben più allarmante cambio di paradigma. E dai cambi di paradigma non si può tornare indietro.
Bisogna dunque applicare nuove strategie industriali, composte di automazione, organizzazione lean, aggiornamento tecnologico (e in particolare informatico), nuove polarizzazioni di un business assai più sensibile alla diversificazione della comunicazione.
Problemi delle tipografie: uno sguardo al Regno Unito
La contemporaneità presenta un dato: la crisi del prodotto tipografico è una crisi del committente.
Da una parte, i budget sono stati dirottati in gran parte sull’online; dall’altra, i gruppi editoriali stessi traggono la maggior parte dei loro fatturati da asset sempre meno legati alla carta.
La sopravvivenza del settore, la soluzione ai problemi delle tipografie passa dalla comprensione dei numeri: il giro d’affari, nei Paesi più sviluppati, si è ridotto di circa il 40%, e questo non riguarda solo l’Italia.
In Gran Bretagna si è passati dai 15 miliardi di sterline di fatturato complessivo ai circa 10 attuali, con una ovvia ripercussione sull’occupazione: nel 2001 l’industria della stampa britannica aveva circa 200.000 dipendenti, ora ve ne sono meno di 120.000 (numeri della BPIF, la British Printing Industries Federation).

Roy Kingstone, Ceo di Wyndeham
Lo conferma Roy Kingston, CEO di Wyndeham, una delle maggiori tipografie del Regno Unito: Wyndeham è, per inquadrare le dimensioni, la tipografia che stampa “The Economist” e la rivista “Men’s Health”.
“Questo stabilimento impiegava 350 persone, ma oggigiorno stampare non richiede quasi personale: ora qui lavorano appena 114 tecnici, pur con una mole di lavoro più che raddoppiata. Negli anni ’90 avevamo tre rotative e buttavamo fuori 20.000 copie a 32 pagine in un’ora; ora facciamo 60.000 copie di uguale spessore con appena due macchine”.
Il vantaggio degli italiani
La salute dei player, negli altri Paesi europei, non è migliore: anzi, le tipografie italiane sarebbero perfino avvantaggiate dall’ottima qualità del prodotto unita a un costo del lavoro sensibilmente minore, se parametrato sul resto del mercato europeo; ma il cambio di paradigma cui accennavamo sopra ha spostato l’asse ancora più a est, con la Cina che nel 2014 è divenuta il più grande mercato al mondo della stampa, superando gli USA (fonte: Smithers Pira), mentre l’India è entrata nella top 5 dei mercati mondiali quest’anno, perché stampare in Asia costa straordinariamente di meno.
Insomma, quanto perduto in termini di fetta di mercato in gran parte non verrà recuperato.

Robert G. Picard, professore a Harvard e Oxford.
Robert G. Picard, già professore di economia dei media presso l’Università di Oxford e presso l’Università di Harvard, sentenzia: “Gli italiani offrono una qualità molto elevata, ma anche un prezzo più basso per via del minore costo del lavoro.
E la Germania ed i paesi scandinavi hanno un’industria della stampa molto efficiente, che elimina alcuni dei problemi di prezzo.
Quindi, a parte le cose che sono urgenti, come le riviste, che devono essere fatte all’interno della regione, il miglior affare si potrebbe trovare al di fuori dei propri confini”.
Del resto, la stessa tecnologia che ha aumentato i problemi delle tipografie dà le soluzioni per uscirne. Il primo punto su cui convergere è un aggiornamento che molti industriali tipografici hanno già affrontato, quelle stampanti laser industriali che permettono di rendere rapida e conveniente una produzione di piccoli lotti, altamente personalizzati.
Macchine inoltre estremamente precise e profondamente automatizzate, pronte per la stampa offset e che lavorano mediante lastre litografiche create da file digitali.
Ma se la crisi, come dicevamo in apertura, è una crisi di committenza, aprirsi a nuovi ambiti potrà dare respiro alle imprese del settore.
Oltre l’editoria
C’è chi sceglie di andare oltre l’editoria, affrontando un mondo inesplorato fatto di etichette e packaging: non un‘idea peregrina, trattandosi di due comparti squisitamente “fisici”, dove non può esistere un contraltare digitale. Sempre Robert G. Picard chiosa: “A ben vedere, compriamo tutti delle cose contenute in scatole di cartone o in barattoli che recano un qualche tipo di etichetta: è qui che il settore della stampa può davvero espandere il proprio business”.
Personalizzazione, offset e interconnessione

I problemi delle tipografie coinvolgono anche giganti del settore, come la britannica Wyndeham
C’è chi ha strutturato canali di comunicazione tipografia-cliente estremamente disintermediati, per facilitare i processi di lavoro: è il caso proprio della maxi-tipografia inglese Wyndeham, che ha sviluppato un software di gestione della stampa e di consegna on-line del materiale da stampare.
Ma non solo: Wyndeham ha istituito una divisione per sviluppare lo stampato (commerciale e non) in tutte le direzioni, inclusi pc, smartphone e iPad.
In questo modo il prodotto grafico stampato “si parlerà” con tutti i device contemporanei.

Il numero di Empire formato king-size per l’uscita del film Godzilla.
Proprio da questo ultimo approccio possono essere tratti alcuni spunti interessanti per affrontare i problemi delle tipografie: l’interconnessione tra offline ed online. Se è vero che in molti oramai hanno dirottato attenzione e finanze sul mondo digitale, la carta ha la caratteristica di rimanere, di non essere transeunte.
Grazie ai nuovi macchinari è possibile realizzare edizioni personalizzate di qualsiasi pubblicazione, diverse rilegature e colorazioni speciali: un prodotto a valore aggiunto molto elevato.
Un esempio: all’uscita del film dedicato a Godzilla, il mensile cinematografico Empire (stampato da Wyndeham) è stato pubblicato in formato speciale king-size, di quasi un terzo più grande rispetto alla consueta pubblicazione. Il numero non solo è stato recepito con successo, ma grazie alla personalizzazione è divenuto un oggetto da collezione.
Dave Eggers (scrittore, editore e fondatore di McSweeney’s, influente rivista letteraria) concorda sul far collaborare mondo online e quello della stampa: “Sarà un’ opinione poco ortodossa, ma i due universi dovrebbero coesistere. Certo, devono fare cose diverse: per sopravvivere, il giornale e il libro fisico devono distinguersi dal web, e in particolare le forme fisiche della parola scritta devono tramutarsi in un’esperienza chiara, diversa”.
Dbc Paper è specialista nelle forniture di carta offset:
controlla il risparmio garantito sul nostro Money Saver!
Fa eco Sara Cremer, dell’agenzia di comunicazione Redwood (che nel suo portfolio ha Jaguar-Land Rover e Barclays): “La stampa fa certe cose molto bene: dà un senso di ricompensa, quasi di lusso il dedicare tempo alla pagina stampata. Ed è una sensazione, un’esperienza che non ha prezzo. Il mondo online vive di immediatezza e condivisione, e quella è una cosa altrettanto preziosa, ma diversa. Il punto però è un altro: i due canali lavorano meglio se creati e utilizzati insieme, ma serve una coerenza nei contenuti e una loro qualità. Senza contenuti di qualità, il tutto diventa uno spreco di soldi”.
Come dire: è inutile dare la colpa ai tipografi se un prodotto brutto non vende – una lezione meno autoassolutoria di quanto sembra, uno stimolo ad impegnarsi (a tutti i livelli) sulla qualità del prodotto finale.
Fonti: